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Uno studio, condotto su 175 pazienti con diabete di tipo 2 scarsamente controllato, ha rilevato che il monitoraggio continuo del glucosio, rispetto al monitoraggio con il glucometro, ha ridotto significativamente l'emoglobina glicata (HbA1c) in otto mesi (-1,1% contro -0,16%).
Lo studio clinico randomizzato, pubblicato su Jama, è uno dei primi a comprendere a fondo l'impatto dell'utilizzo di un monitoraggio continuo del glucosio negli adulti con diabete di tipo 2 scarsamente controllato, che sono trattati solo con insulina basale, un'insulina ad azione prolungata progettata per essere iniettata una o due volte al giorno. L'autore dello studio Rodica Busui e il suo team hanno cercato di capire, inoltre, come questo approccio influenzi l'aderenza e la soddisfazione dei pazienti. I risultati mostrano che il monitoraggio continuo del glucosio permette di ridurre, in otto mesi, dell'1,1% i valori dell'emoglobina glicata, da 9,1% all'8%, rispetto all'0,16% nei pazienti che utilizzano il monitoraggio con glucometro. Inoltre, i 175 partecipanti allo studio hanno una migliore aderenza nella gestione del diabete e una migliore qualità di vita. Questo lavoro dimostra che l'uso del monitoraggio continuo del glucosio è efficace nel migliorare sostanzialmente i livelli di zucchero nel sangue e ridurre i rischi di ipoglicemia in coloro che sono stati randomizzati per utilizzare un monitoraggio continuo del glucosio rispetto alla solita puntura del dito. Busui, MD, Ph.D., anche vicepresidente presso il Dipartimento di Medicina interna dell'Università del Michigan Health, afferma che «la ricerca potrebbe aprire la porta a una più ampia copertura di questa tecnologia rivoluzionaria per tutti i pazienti con diabete. Un numero maggiore di pazienti può gestire il proprio diabete se hanno accesso a questa risorsa e i loro medici di base vengono istruiti sui benefici che apporta».
Il periodo pandemico ha dimostrato quanto sia necessario avvalersi del metodo scientifico per rispondere a quesiti che si riferiscono in generale alla salute pubblica, anche per quel che riguarda la farmacia clinica. Un tema al centro della giornata inaugurale della nona edizione del congresso nazionale Sifact (Società italiana di farmacia clinica e terapia). Il congresso si articola in quattro giornate - 11, 15, 19 e 20 novembre - e ha come tema chiave la "Evidence based pharmacy", ovvero, come già accade in medicina, l'uso cosciente, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze (cioè prove di efficacia) biomediche al momento disponibili, al fine di prendere le decisioni per l'assistenza del singolo paziente, al fine di personalizzare la sua terapia.
In questa prima giornata, che si è tenuta online - moderata da Angelo Claudio Palozzo (presidente di Sifact), Maria Cecilia Giron (dipartimento Scienze del farmaco dell'Università di Padova), e Daniele Mengato (Uoc farmacia, Azienda Ospedale, Università di Padova) - si sono voluti approfondire i temi legati all'"Evidenza scientifica: il percorso dal dato sperimentale alla prescrizione della terapia". Nel primo intervento Andrea Messori (Unità di Hta, Regione Toscana, Firenze) ha approfondito gli aspetti preliminari per quei farmacisti che pubblicano o che vorrebbero pubblicare evidenze su riviste scientifiche. Messori ha spiegato come viene solitamente misurata l'autorevolezza delle riviste scientifiche (impact factor) e di come queste siano indicizzate, ovvero: quelle non censite da PubMed, se l'articolo risulta scritto in italiano, e quelle censite, pubblicate in lingua inglese. Messori ha evidenziato come occorra avere pazienza per vedere pubblicato un proprio studio, sia per i tempi di revisione delle riviste (di solito molto lunghi) sia perché spesso è l'esperienza a determinare il successo nel vedere pubblicato un proprio lavoro.
Le raccomandazioni di Messori: «Se si scrive in lingua inglese occorre impegnarsi affinché il testo abbia una impostazione metodologica e una qualità linguistica perfette; evitare le riviste "predatorie" che solitamente pubblicano a pagamento, in inglese, ma che non sono indicizzate su PubMed; seguire scrupolosamente tutte le regole della rivista scelta per la pubblicazione del proprio studio; non lasciarsi abbattere nel vedersi rifiutata la pubblicazione, anche se si tratta di una rivista importante, perché è un evento normale; non mandare contemporaneamente lo stesso articolo a diverse riviste, ma agire su una rivista per volta; consigliare "referees" alle riviste (coloro che analizzano gli studi in anonimo) evitando colleghi con cui si sono scritti articoli, indicando una pletora di nomi, per risultare imparziali». Francesco Visioli (dipartimento di Medicina molecolare dell'Università di Padova; Imdea-Alimentacion, Madrid) si è invece soffermato su come valutare le pubblicazioni scientifiche. Visioli ha sottolineato come "l'impact factor" non valuti il ricercatore, ma la rivista, e ha portato a esempio alcuni articoli ritirati, anche da riviste scientifiche prestigiose, per via della pubblicazione di dati falsati. Questo significa che occorre molta attenzione nella valutazione degli articoli scientifici che leggiamo e serve sempre, in prima istanza, il nostro spirito critico. Visioli ha anche spiegato come negli ultimi anni la velocità di pubblicazione sia aumentata del 49%, un'accelerazione violentissima di tutto il procedimento editoriale: «Da una parte può essere un bene per il dialogo scientifico, dall'altra questo potrebbe causare pressapochismo nell'analisi degli studi. Il futuro rimane incerto e probabilmente occorrerà trovare un compromesso sulla velocità di pubblicazione per assicurare la qualità degli studi. Il sistema di peer review non è perfetto, ma è certamente il sistema migliore che abbiamo oggi per valutare un lavoro scientifico, tenendo sempre conto del fattore temporale, dato che la scienza negli anni si autocorregge». Visioli ha concluso evidenziando che occorre fidarsi delle riviste scientifiche, come bisogna fidarsi dei ricercatori anche quando alcuni involontariamente sbagliano. Nell'accostarsi alle evidenze occorre pazienza, leggere e valutare le statistiche, prendere in considerazione la numerosità del campione, l'innovazione e le metanalisi, tenendo però sempre presente il proprio spirito critico nell'approccio alla lettura.
Maria Paola Trotta (settore Hta ed Economia del farmaco di Aifa) ha evidenziato come tradurre, con la raccolta delle evidenze, la pratica clinica in condizioni di emergenza. Ponendo a esempio la pandemia che stiamo vivendo, la relatrice si è posta la domanda se in casi emergenziali critici, come l'infezione da Sars-Cov-2, l'evidence based medicine sia ancora attuale e utile, quando l'attenzione sembra piuttosto essere focalizzata "sul fare" piuttosto che sul conoscere. «Le evidenze», ricorda Trotta, «non vanno solo generate ma, soprattutto in tempo di crisi, valutate, interpretate e contestualizzate, perché esse, come la pandemia che stiamo vivendo, sono eventi complessi e le evidenze sono solo un piccolo tassello di questa complessità. Che cosa ci ha insegnato questa esperienza? Che anche durante le emergenze la ricerca può e deve essere svolta; i trial, per quanto difficili da condurre, sono l'approccio più etico e affidabile per identificare rapidamente dei trattamenti efficaci; i tipi di trial più affidabili sono rappresentati da studi adattivi, in grado di accettare e rigettare rapidamente più terapie sperimentali; quando ulteriori informazioni vengono rese disponibili, le decisioni devono essere adattate per incorporare le nuove conoscenze». In condizioni di completa incertezza, ha concluso Trotta, di fronte a un fenomeno completamente nuovo la scienza deve garantire strumenti di rigore metodologico. Questo può anche portare a ripensamenti e a cambi di direzione, che non devono essere interpretati come una sconfitta, bensì come la certezza di saper evolvere e modulare le proprie decisioni, a fronte di nuove evidenze che si vengono a creare. La salute dei singoli pazienti della sanità pubblica generale potrà essere servita al meglio rimanendo fedeli all'approccio collaudato su prove di studi clinici e alla valutazione dei farmaci.
Chiudendo i lavori della prima giornata, Telmo Pievani (dipartimento di Biologia, Università di Padova, delegato del Rettore per la comunicazione istituzionale) ha parlato di come comunicare a livello scientifico. «Niente tornerà più come prima nel modo con cui noi oggi pensiamo i rapporti tra scienza e società. Non era mai successo che la figura dello scienziato fosse portata in prima pagina su tutti i mass media con il massimo di visibilità. Tutto questo ha certamente lasciato degli strascichi e occorre molto probabilmente capire cosa sia successo e anche quali errori siano stati compiuti». Per Pievani anche la comunicazione della scienza deve essere "evidence based" e per capire quanto è efficace dobbiamo capirne il suo effetto e quantificarlo: «I dati ci indicano che prima del periodo pandemico la percezione degli italiani sulla scienza e gli scienziati era molto positiva. Dodici mesi dopo si è visto un tracollo di questa fiducia, che è calata drammaticamente. Ci sono state indagini ulteriori per capire le ragioni e ciò che ne è emerso è stata l'incapacità da parte della popolazione di capire bene la situazione, in mezzo alle contraddizioni a cui ogni giorno veniva sottoposta da parte dei media e della comunità scientifica». Secondo Pievani, sono molte le motivazioni che hanno indotto a questi risultati e alla difficoltà della percezione della sfera scientifica in Italia, motivazioni sociologiche e storiche. Chi lavora dentro la scienza ha, però, il dovere di essere autocritico per capire tutti gli errori che sono stati commessi: spesso si dimentica di comunicare e raccontare - oltre ai contenuti e i risultati - i processi che hanno portato alle evidenze, il lavoro, le difficoltà, gli errori. In questo modo «possiamo ottenere un doppio risultato: la spiegazione dei contenuti e la spiegazione dell'approccio scientifico. Se si riesce a fare questo, diventa difficile per lo scienziato che spiega al pubblico produrre certezze, perché nella scienza di certezze non ce ne sono. Inoltre, lo scienziato quando comunica non dovrebbe mai porsi in maniera autoritaria e dovrebbe evitare atteggiamenti paternalisti». Da non trascurare, per Pievani, come il dibattito scientifico sia incompatibile con i talk show o i new media, luoghi dove la scienza è stata protagonista in questo ultimo difficile periodo, perché la divulgazione scientifica ha le sue sedi, i suoi tempi e le sue modalità, che si discostano completamente da esigenze di comunicazione veloci e, molto spesso, superficiali. In questi luoghi occorrerà quindi «dettare ogni tanto le regole e non solo subirle, evitando anche determinate situazioni. Infine, occorre per la comunità scientifica cercare di comunicare il più possibile anche a livello istituzionale, e non solo a titolo personale, per rendere più autorevole il messaggio attraverso un dato condiviso».